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Le recensioni!

LONG SEASON (Fishmans, 1996), di hypercollider

Alcune volte mi capita parlare di musica con qualcuno e ricevere la fatidica domanda: "qual'è la tua canzone preferita?"
Una domanda che può essere facile per alcuni e difficile per altri, ma che per me è particolarmente difficile, dato che ogni volta devo spiegare – ormai aspettandomi lo sguardo confuso dell'altra persona – che la mia canzone preferita dura 35 minuti ed è anche il mio album preferito.

Long Season, della band giapponese Fishmans, uscito nell'ottobre 1996, è un album composto da una singola traccia, lunga 35 minuti. I Fishmans hanno cominciato la loro carriera all'inizio degli anni 90 suonando principalmente musica Reggae e Dub, ma a lungo andare hanno sviluppato un suono tutto loro, ispirato dalla Neopsichedelia e dal Dream Pop del Regno Unito e dal movimento Shibuya-kei che stava crescendo in Giappone in quegli anni, ma comunque mantenendo un pizzico di quello spunto Dub da cui hanno cominciato.

Long Season è la culminazione del suono da loro sviluppato, una traccia suddivisa in 5 parti che costruisce quasi un viaggio dell'eroe in maniera sintetizzata, cominciando in un luogo familiare, superando ostacoli lungo il tragitto, per poi finire di nuovo a casa, cambiato.

Molti elementi vanno e vengono lungo questo viaggio: arpeggi di pianoforte pregni di echo, linee di basso groovy, ondate di batterie e percussioni, fisarmoniche, chitarre, violini, cori, effetti sonori; il tutto mantenuto con i piedi per terra dalla voce del frontman dei Fishmans, Shinji Sato.

Se vi è piaciuta la versione originale, consiglio tanto anche la versione da 41 minuti suonata live all'Akasaka Blitz il 28 Dicembre del '98, famosa per essere stata l'ultima canzone che la band suonò prima della morte inaspettata e prematura di Shinji Sato; da alcuni viene considerata addirittura la versione migliore della traccia, e onestamente lo posso capire.

A Long Season dei Fishmans do 10 fette di pizza bianca con sopra formaggio spalmabile, salmone affumicato, cipolle rosse sott'aceto e aneto!

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Mehliana: Taming the Dragon (Brad Mehldau & Mark Guiliana, 2014), di samu_sf

Sapete cos'è il synth jazz? No?
Questo disco è tipo uno dei capisaldi del synth jazz moderno, non l’avevo mai ascoltato ma dovevo recuperarlo per forza e ne è mega valsa la pena!
Cosa succede quando un jazzista da sempre dedito al jazz acustico e all’uso del pianoforte decide di raccontare il rapporto complesso tra due parti di sé?
Succede che scopre i synth, e succede che chiede ad uno dei batteristi più in voga al momento nel jazz d’avanguardia di collaborare alla scrittura di un disco.
Ed è così che nasce uno dei dischi considerati “apri pista” del synth-jazz: Taming the Dragon, la diretta conseguenza dell’unione di due nomi già consacrati nel jazz contemporaneo, Brad Mehldau e Mark Giuliana.

La coppia, un po’ come una ship di una fan fiction, si attribuisce un “nome d’arte” che nasce dalla crasi dei loro cognomi. Mehliana è un incontro molto fortunato, così fortunato da perdurare ancora oggi.

E la loro magia si sente bene in questa prima collaborazione. Siamo nel il 2014, il duo rilascia un album di 12 brani dove troviamo dei nuovi crismi stilistici che caratterizzeranno uno dei due filoni compositivi di Mehldau: ricerca di un’armonia che alterna scelte “scomode” a momenti più cantabili, melodie a tratti dissonanti ma sempre risolte, un Fender Rhodes che bussa alle orecchie, interventi di una voce parlata che sembra venire da dentro, e che guida l’ascoltatore nell’immagine che la musica descrive perfettamente, o verso temi di rilevanza sociale (Elegy for Amelia E., ad esempio).

La batteria, neanche a dirlo, è perfettamente on-point: da ritmi quasi breakbeat a groove più basilari ma sempre precisi e ricercati, sostiene perfettamente le intenzioni di ogni brano, e lo fa utilizzando utilizzando non solo lo strumento classico, ma introducendo anche campioni di altri suoni, effetti sonori e acustici.

Anche per questo disco c’è un aneddoto per la serie “cose da Grammy”: il brano Sleeping Giant (totalmente improvvisato e registrato one-take, quindi senza sovraincisioni) è stato candidato a “Best Improvised Jazz Solo” nel 2015.
Disclaimer in chiusura: per apprezzare questo disco serve pazienza. Non solo perché i brani hanno una durata da “jazz” (tra i 5 e i 10 minuti), ma anche perché lo scopo di questo genere musicale è godersi le variazioni, seguire ciò che accade.
Non è un ascolto complesso, anzi, ma richiede un briciolo di curiosità!

8 fette e mezzo di una pizza d’avanguardia fatta da un pizzaiolo napoletano con 20 anni di esperienza!

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Empathogen (Willow, 2024), di samu_sf

Quindi nulla, oggi vi parlo di Empathogen perché giorno fa mi sono svegliato con in testa un brano di questo album pazzo, uscito poco più di un anno fa.

Si tratta del sesto album di Willow, uscito per Three Six Zero e Gamma (due etichette indipendenti, non-major) È una robba. È proprio strano, ma strano bello.
Willow (figli di Will Smith, tra l’altro) nel suo percorso musicale ha dato largo spazio a influenze pop, punk, con collaborazioni con artisti tipo Machine Gin Kelly, Trevis Barker, ma anche Nicki Minaj.
Questo disco non c’entra NULLA con tutto ciò.
12 tracce, poco più di mezz’ora di musica, una produzione fotonica e una libertà di scrittura inaspettata.

Musicalmente c’è del jazz, c’è del soul, c’è dell’alt-rock, non mancano nemmeno le melodie pop, ma in una mistura molto libera, che personalmente non ho trovato da nessun’altra parte ad oggi.

Al primo ascolto sono stato catturato proprio dal sound innovativo, ma anche dalle idee musicali che raccontano molto nonostante, a volte, non vengano approfondite a lungo.
Alcuni brani infatti sembrano voler correre e, spoiler, questo è l’unico vero deficit dell’album a parer mio

A livello produttivo, insieme a lei, troviamo vari nomi tra i quali spiccano Jon Batiste, jazzista “classico” ma molto attento e presente nel panorama musicale contemporaneo, e Kamasi Washington, sassofonista che nella creazione di nuovi sound ha basato/basa tutt’ora la sua intera carriera.
E la loro maestria si sente: gli arrangiamenti sono a regola d’arte.
Le canzoni si reggono perfettamente su pochissimi elementi (spesso il basso, a volte la chitarra, quasi sempre in appoggio su una buona ritmica), e tutti gli altri strumenti presenti aiutano a determinare un sound caldo, intimo e molto coerente, oltre che ad accentare i momenti importanti e ad accompagnare l’ascoltatore nei vari picchi emotivi.
Ciliegina sulla torta:
Il mix engineer di questo disco è Mitch McCarthy. Il tizio in questione qualche anno fa ha vinto un Grammy, e con questo disco si è aggiudicato la nomina a “best engineered album, non classical” (che non ha vinto solo perchè gareggiava contro i/o di Peter Gabriel).
Questo per dire che: suona davvero, davvero bene.
Elementi ben posizionati in ambienti complessi, una spazialità quindi curatissima e coerente, timbri caldi ma brillanti..la voce di lei presente e intellegibile ma mai over-elaborata, un approccio generale che ricorda quasi quello riservato alla musica classica e soprattutto DINAMICO, gli strumenti respirano e le compressioni sono solo di controllo e di livellamento in mastering…proprio bello da ascoltare.

Parlando di Grammy, ho lasciato alla fine un dettaglio che potenzialmente potrebbe incuriosirvi ad ascoltare il disco a prescindere da tutto il resto: oltre alla nomina per “best engineered, non classical”, ne ha ricevute altre due.
Una per “best album, non classical” e l’altra, specificamente per il singolo “big feelings”, per “best arrangements, instruments and vocals”.
E le nomination ai Grammys, spesso, valgono più delle effettive vittorie (major, am i right?)

9 fette di pizza rossa con mozzarella di bufala, pomodorini confit, scaglie di parmigiano stagionato tantissimo.

Lascio qui qualche linkino per l’ascolto:
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